Maggio in Italia è il mese del libro – Salone internazionale del libro di Torino, Maggio dei Libri etc. – e, tanto per essere coerente, ne ho scritto uno.
Sì, nel mese di maggio ho scritto un romanzo, seppur breve.
Stavo lavorando a un’altra storia e il 30 aprile alle 5.00 am, come ogni altra mattina, mi sono messa al PC per scrivere.
Dovevo terminare il capitolo 23 e invece…
Invece, ho iniziato un’altra storia che non ho più mollato (o che non mi ha più mollato… Il confine è sottilissimo).
Sì tratta di una storia comica – o almeno quella era la mia intenzione – di realismo magico.
Non vi racconterò la trama, i personaggi o le tematiche principali, vi proporrò invece qualche brandello della prima stesura.
Benvenuti nel paese di Acqquafonda
(rigorosamente con due Q)
Fiammetta non era la ragazza più bella di Acqquafonda, al massimo poteva aggiudicarsi il terzo posto, a pari merito con la figlia mezzana del panettiere. Seppur non la più bella, era certamente quella che sapeva ballare meglio, cantare meglio e, soprattutto, ridere meglio.
Il suo volto delicato esplodeva d’improvviso in risate crepitanti, che a udirle scaldavano il cuore e bruciavano l’anima.
Rideva di tutto Fiammetta, delle nuvole che correvano in cielo, delle grondaie che gorgogliavano dopo il temporale, del chiocciare petulante delle galline, ma quel che le riusciva più facile era ridere degli altri.
Rideva delle caviglie grosse della lattaia, della pelata del farmacista, degli abiti logori della vedova Perinò; rideva persino dei suoi tanti corteggiatori che – solo cupido sapeva il perché – adoravano quando si burlava delle loro lacrime, dei giuramenti e dei sospiri.
I paesani lo chiamavano l’Inventore, ma più per scherno che per rispetto. A quanto se ne sapeva non aveva mai inventato nulla, salvo quella volta che costruì, su commissione del parroco, una pedana girevole sulla quale collocare il presepio.
Per i primi giorni dell’avvento il presepio ruotò su se stesso come per magia, con un movimento lento e costante. A metà dell’avvento, però, la pedana cominciò a strattonare e i chierichetti passavano i pomeriggi a tirar su dal muschio pastori e pecore finiti gambe all’aria. Il 21 dicembre, infine, la pedana s’imbizzarrì, accelerò la sua rotazione e proiettò le statuine tutt’intorno proprio durante la recita della novena. La moglie del sindaco fu colpita in fronte dall’asinello, l’assessore alle varie ed eventuali si beccò la mangiatoia sui denti e gli altri fedeli, ginocchioni sul pavimento, cercavano sotto ai banchi le pecorelle smarrite.
San Giuseppe non fu più ritrovato!
Ci sono due modi per fare sì che una piccola volpe crescendo non dia l’assalto ai pollai: spararle prima che si renda conto di amare le galline, o farle credere di essere un cane. Quando il signor Anselmo si accorse che una volpacchiotta vagava sperduta per i suoi pascoli, subito pensò di mettere in atto la prima soluzione, ma quando la bestiola lo guardò con i suoi grandi occhi da cucciolo spaventato, ripiegò sulla seconda.
Il suo primo tentativo fu una bambola parlante, progettata sul modello di quelle create da Edison. Secondo i progetti di Antonio, la sua bambola parlante avrebbe dovuto essere assai migliore rispetto a quelle create dal famoso inventore che, nonostante ai loro tempi fossero una sorprendente novità, non sortirono il successo sperato. Le bambole di Edison, infatti, funzionano grazie a un fonografo inserito al loro interno, ma le frasi che emettevano avevano un tono così inquietante e spettrale che i bambini ne rimasero terrorizzati. Grazie a un’arguta modifica al progetto edisoniano, la voce della sua bambola risuonava invece dolce e musicale. La pupattola di Antonio aveva in effetti una vocina incantevole, ma si ostinava a non ripetere le frasi registrate sul fonografo, creandone di proprie mischiando le sillabe a suo piacimento. Da principio borbottava parole senza senso poi, dopo un forte temporale, si mise a imprecare come uno scaricatore di porto e per metterla a tacere, fu necessario chiedere l’intervento del parroco, affinché le praticasse un esorcismo.
Seppur provata come chiunque altro dai festeggiamenti della notte precedente, suor Onofria si era svegliata di buon mattino per preparare i pasticcini. Nulla per lei era più sacro di una promessa, persino di una che non riusciva a ricordare di aver formulato.
Per quanto riguardava suor Palmira, l’ultima volta era stata avvistata mentre ballava forsennatamente col figlio del farmacista, dopodiché si erano perse le sue tracce.
Suor Onofria non se ne preoccupava: sorella Palmira sarebbe tornata non appena il livello alcolico nel sangue le fosse sceso a sufficienza da permetterle di ricordare la strada di casa; il suo unico pensiero era che rincasasse in maniera discreta, col velo ben calcato sulla testa e senza canticchiare canzonacce da osteria, come talvolta le accadeva involontariamente quand’era molto stanca o molto felice e, quella mattina, c’era il rischio che fosse entrambe le cose.
Grazie per essere arrivati sino a qui, ci rileggiamo a giugno. Nel frattempo, se vi va, potete leggere Patataridens il mio blog, dedicato all’umorismo femminile, dove, oltre ai miei articoli settimanali, trovate quelli di altre autrici comiche.